Opera

La torre di Babele in Arena

"Nabucco" inaugura il festival nell'anfiteatro: lo spettacolo è quello funzionale e decorativo, per quanto datato (ha 25 anni!), di Gianfranco de Bosio. Sul podio Riccardo Frizza

Pioggia sull’Arena. A mezz’ora dall’inizio, sembrava di essere tornati all’estate scorsa, la peggiore di sempre per le intemperanze di un meteo responsabile di mancati incassi per 2,5 milioni di euro. Poi, rapidamente, un fresco Grecale ha spazzato via le nuvole e l’inaugurazione del 93° Festival si è svolta senza intoppi, solo con il ritardo necessario ad asciugare il palcoscenico. Rimangono, spesse, le altre nubi. Quelle di un bilancio sempre pericolosamente dissestato (il deficit è a 7 milioni), tale da richiedere l’intervento finanziario di enti e istituzioni locali, mentre è notizia recente che il Fus, il contributo statale, dopo la contestata decurtazione di un paio di milioni arriverà anche in ritardo, perché non sono stati rispettati i tempi nell’invio del bilancio di previsione al Ministero. E quelle del gelo fra sovrintendente Girondini e direttore artistico Gavazzeni, dopo la candidatura di quest’ultimo al San Carlo di Napoli a pochi mesi dalla conferma in Arena.

Emergenza continua, insomma, finanziaria e gestionale. Una situazione che inevitabilmente si riflette sul festival 2015, che non presenta alcuna nuova produzione, così come accadrà – è già stato annunciato – anche l’anno prossimo.

Si punta sempre di più sui “greatest hits” del repertorio: presenza fissa è ovviamente Aida, poi a rotazione le altre due opere sul podio delle più rappresentate in Arena, Carmen e Nabucco. E quindi i titoli più popolari e tradizionali (Tosca, Traviata, Rigoletto, Il Barbiere di Siviglia…), che garantiscono l’interesse del grande pubblico. Unica eccezione, il Don Giovanni mozartiano.

L’inaugurazione di quest’anno è toccata al Nabucco versione de Bosio, un ormai antico spettacolo (è nato nel 1991) che ha avuto in sorte di sparire dalla programmazione a lungo, prima di riemergere qualche anno fa. Aveva lasciato il posto, in particolare, al formidabile Nabucco archeologico-futuribile ideato nell’anno 2000 da Hugo de Ana, così radicalmente innovativo che nel giro di un paio di anni è stato accantonato e non è mai più ricomparso. Alla fine gli è stato preferito – fra altri tentativi ora felici (Denis Krief, 2007), ora meno – il gusto tradizionale e monumentale di Gianfranco de Bosio, l’uomo che ha fatto rivivere l’Aida del 1913, l’allestimento più rappresentato di sempre in Arena.

De Bosio, energico e trascinante ultranovantenne, è il maggior conoscitore dell’anfiteatro romano di Verona come luogo di spettacolo, e lo si nota nella capacità di costruire uno spettacolo che è insieme maestoso e funzionale, decorativo ed essenziale, colto (c’è una torre di Babele esemplata su Brueghel) e popolare. Certo, manca un po’ di colore alle scene di Rinaldo Olivieri, specialmente a quelle babilonesi, di un monotono grigio e ocra desertico (la strepitosa raccolta archeologica assiro-babilonese del Museo di Pergamo a Berlino illustra invece come un acceso cromatismo caratterizzasse il gusto di quell’antica civiltà), ma si sopperisce con costumi dalle tinte spesso vivaci. E non mancano i “colpi di teatro”, dal fulmine che si abbatte su Nabucco (finale della seconda parte) allo squarcio della torre di Babele, che “amplifica” la caduta della statua del dio Belo. Tutte cose che scatenano lo stupore, i flash e l’approvazione del pubblico dell’Arena.

Sul podio è salito Riccardo Frizza, al contrario non molto esperto di quell’arte nell’arte che è la direzione in Arena. Lo si è sentito nella non sempre perfetta integrazione fra scena e orchestra, in qualche attacco un po’ periglioso del coro, ma sono elementi che andranno a posto con il proseguire delle repliche (ne sono previste 13, fino al 5 settembre). Positiva invece la scelta stilistica, che non nasconde e anzi sottolinea la vivacità spesso ruvida del primo Verdi, sottolineandone il carattere intimamente drammatico e comunque regalando anche interessanti dettagli nel fraseggio.

In crescendo di qualità espressiva e vocale la prova di Luca Salsi, un Nabucco notevole per la ricchezza del timbro e l’efficace duttilità della linea di canto, capace di delineare ugualmente bene l’arroganza del potere e il rovello interiore che precede la conversione. Non altrettanto si può dire di Martina Serafin, un’Abigaille di tensione drammatica quasi sempre evanescente, anche a causa delle difficoltà nella zona acuta della tessitura, che l’ha portata a suoni spesso tesi e forzati, mai davvero incisivi. Autorevolmente ieratico il basso Dmitry Beloselsky, uno Zaccaria dalla vocalità corposa e adeguatamente duttile; positivi sia la Fenena di Nino Surguladze, dagli accenti efficacemente drammatici, capaci di riscattare il suo personaggio dal lirismo di maniera, sia l’Ismaele di Piero Pretti, pronuncia chiara, voce ben controllata. Il coro, istruito da Silvio Sgrò, non ha tradito le attese in uno dei suoi grandi cavalli di battaglia. Replicato “d’ufficio” (non c’era stata in realtà nessuna esplicita richiesta), Va pensiero è stato risolto con misurata interiorità, lontano da ogni retorica.

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Pubblicato su Il Corriere Musicale

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